Come ogni anno, puntuali come le feste comandate e le esercitazioni militari arrivano le cicliche polemiche sul turismo, la cultura, il futuro della Sardegna.
Questa volta la miccia è stata l’idea lanciata dall’intellettuale e scrittore sardo Marcello Fois che ha proposto di realizzare nel nord Sardegna il museo Betile progettato dall’architetto Zaha Haid per essere realizzato a Cagliari e che mai ha visto la luce.
Intorno a questa idea si è accesa una grande discussione (accentuata dalla candidatura di Sassari come capitale italiana della cultura dall’Architetto Stefano Boeri) che ha visto l’intervento di politici, intellettuali, esponenti del mondo della cultura, architetti, nella migliore tradizione delle discussioni che solleticano le questioni locali e le mai sopite rivalità geografiche.
A questo si è aggiunta la polemica intorno alla nascita della Fondazione dei Giganti di Monte Prama, in particolare sul ruolo della politica riguardo la gestione, strategia e direzione.
Con tutto il rispetto per chi ha con passione espresso la propria idea sfugge il fatto che sono decenni che in tanti abbiamo provato a cambiare l’inerzia della Regione, delle città, delle comunità più piccole e in tutto questo, in questi anni, il massimo che siamo riusciti ad ottenere è stato un sorrisetto di compiacenza se non insulti velati, sprezzanti chiusure o peggio mobbing sociale.
O ancora principalmente visti come poveretti senza visione e disconnessi dalla realtà dove prima di un nuovo modello di sviluppo ci vogliono altre e più tangibili cose, soprattutto se misurabili in metri cubi.
Una visione mediocre, miope, egoista e autolesionista fatta di strappi e polemiche con Cagliari da una parte, Sassari da un’altra, Nùoro nel mezzo e via dividendo in una visione anacronistica che ha come risultato il creare totem accentratori di servizi e interessi in un momento storico nel quale i modelli diffusi, condivisi, partecipati e (conseguentemente) sostenibili sono il più intelligente e praticabile dei futuri.
Decenni buttati a parlare per slogan, sparate irrealizzabili e alla rincorsa di modelli inapplicabili o con la speranza che la bacchetta magica faccia il miracolo.
Ancora non è chiaro cosa siamo, cosa potremmo essere e soprattutto cosa vogliamo essere.
Molto più semplice perdere tempo dietro pifferai magici che ci ammaliano con motivetti suadenti senza avere compreso che serve una sinfonia ben orchestrata.
Partiamo da un assunto, il futuro passa dalle persone, dall’ambiente, da quanto ci si senta parte di un futuro di cui probabilmente non vedremo il compimento.
In questo momento storico dove edonismo, egoismo e sloganismo trovano terreno fertile parlare di generosità, rinuncia e sostenibilità al di là dell’aspetto formale è abbastanza impopolare.
Eppure la soluzione è più semplice di quanto possa sembrare e si fonda su pochi pilastri: urbanistica, sociale, economia, sostenibilità.
Progettare un futuro che non veda la Sardegna come una ciambella marino-balneare con un buco nero di eremiti utili solo come folklore per gli occasionali e abbronzati turisti.
La Sardegna è un tessuto di persone passate e presenti, della loro storia, di piccole comunità e poi (anche) di medi centri urbani che per semplificare generosamente chiameremo città. Abbiamo visto negli ultimi anni quanto il modello delle città calamite di persone e servizi siano entrate in crisi, la pandemia poi ne ha mostrato tragicamente i limiti oggettivi: non sono finite ma sicuramente fortemente ridimensionate. In un contesto ambientale e antropologico così speciale continuare a inseguire quindi modelli che si calano a fatica nel nostro contesto è come tentare di quadrare il cerchio, anzi la ciambella.
Un nuovo modello economico, urbanistico, sociale e culturale condiviso e partecipato è la premessa per sentirsi parte di un futuro scelto consapevolmente e non subito passivamente.
Siamo invece travolti da banalità imbarazzanti del come ripartire puntando su un comparto economico o un attrattore specifico e tutto questo è davvero avvilente.
Prendiamo turismo e cultura, argomenti che sono tra i più gettonati tra le chiacchiere da bar e nelle pagine dei quotidiani, tra sinergie e destagionalizzazioni facendo rete con l’ottica della sostenibilità.
Siamo un luogo di storia e di storie, di luoghi e di logos, di cultura e colture immersi in un ambiente straordinario e unico.
Unico, non l’unico.
Essere una comunità, prima di tutto, per poi essere comunità accogliente: questa è la strada per uno sviluppo sociale consapevole, davvero sostenibile e con una prospettiva florida di futuro.
Essere comunità significa condividere valori e visioni comuni, trovare la propria identità al di là delle questioni meramente e solitamente folcloristicamente indipendentiste rimane la strada maestra per un futuro.
Ma è il come ad essere complicato, presi da una visione autoreferenziale che annebbia i contorni dei problemi.
Oltre questo c’è la tendenza a vivere dietro i muretti a secco, ossessionati dalla logica del complotto, pronti a sparare fucilate di parole che spesso armiamo di argomenti di cui abbiamo scarsa competenza, conoscenza e coscienza, senza sapere realmente il perché stiamo dando addosso agli altri se non per una sensazione e convinzione personale.
Uscire da questa logica è il primo passo, provare ad affrontare i problemi insieme, senza paura di discutere e perdere (alla luce del sole) la reputazione sociale (e gli incarichi, soprattutto) per comprendere che solo così la comunità ha un senso, senza l’egoismo figlio di una mediocre e limitate visione della vita.
Ripensare a nostro futuro ripartendo dalle unità minime della socialità e dell’umanità, le persone, risalendo nelle comunità di interesse paesi (o borghi, che è molto di moda) fino a ridare un senso alle città e alla regione stessa.
Ritrovare il senso dello stare insieme per costruire futuro e non per distruggere qualunque idea che non sia quella (per forza di cose limitata) che ci siamo fatti nella nostra testa.
Costruire il futuro con il parametro uomo e non con il solo metro cubo o con la redditività, per un modello che sia nativo, innovativo e proattivo.
Costruire un futuro che non sia una copia del tragico passato e non sia solo un desiderata del presente.
Costruire una comunità che sia futuro.